Nato a Montalbano Jonico il 19 novembre del 1843 da una famiglia proveniente dalla vicina Puglia, Antonio Maria Mosetti fu tra i più giovani soldati borbonici internato nel lager piemontese di Fenestrelle.
Quando lo dette alla luce la madre, Vittoria, aveva appena vent’anni, il padre ventisette, faceva il carbonaro, non aveva nulla a che vedere con qualsiasi setta o consorteria politica, l’uomo era specializzato nel produrre carboni che vendeva a sacchi.
Antonio era poi cresciuto sano e forte, aveva aiutato la famiglia nei lavori domestici e in quella vita semplice si era perso con gioia.
Non aveva ancora 18 anni quando si arruolò come soldato nell’esercito borbonico.
Non sapeva Antonio che in quel periodo sarebbe stata scritta un’importante pagina della storia d’Italia.
Egli era orgoglioso della divisa che indossava, del suo Re, della sua terra, era fiero di appartenere a quell’esercito, della sua identità, dei colori della sua divisa, dei suoi superiori.
Poi arrivarono i garibaldini e, quindi, i piemontesi, per fare l’Italia unita a suon di stragi ed esecuzioni sommarie ed egli venne fatto prigioniero.
Si rifiutò di rinnegare il Re e di tradire il giuramento che gli aveva fatto, passando armi e bagagli con l’ esercito invasore.
Non aveva ancora compiuto 21 anni quando venne deportato nella fortezza di Fenestrelle, posta a duemila metri d’altezza, ai confini con la Francia, a due passi da Torino.
Gli internati che vi persero la vita furono circa ventimila. Erano militari borbonici che non volevano ultimare il servizio militare obbligatorio nell’esercito sabaudo. Il più anziano tra essi non aveva che 32 anni.
La naturale asperità dei luoghi e il clima freddo rendevano quel posto un vero e proprio campo di concentramento, disumano, freddo, desolato, tetro.
Soffrivano anche i carcerieri a stare lì, ma avrebbero pagato con la fucilazione un’eventuale diserzione.
I prigionieri che tentavano la fuga o non rispettavano le dure regole interne erano costretti a portare una palla al piede di circa 16 chili, a ceppi e catene.
Dormivano senza un pagliericcio, senza coperte, senza luce.
Vennero smontati gli infissi per farvi entrare aria e rieducare con il freddo i segregati. Denutriti e con dei cenci per abbigliamento, lontano ricordo di quella che era stata una divisa militare, di giorno gli internati si trascinavano nei punti più assolati per catturare qualche timido raggio di sole e riscaldarsi.
Per molti la liberazione da quelle sofferenze avveniva solo con la morte e i loro corpi venivano disciolti nella calce viva, in una immensa vasca scavata nel retro della chiesa, all’ingresso della fortezza.
Dopo immani sofferenza, a Fenestrelle non si riusciva a sopravvivere più di tre mesi, in tanti ogni giorno morivano.
“Quei soldati – ha scritto Maurizio Di Giovine – finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 21 anni, il più vecchio 32. Se non fossero stati relegati a Fenestrelle, probabilmente sarebbero divenuti “briganti” e, forse, anche per questo motivo, furono relegati nella fortezza del liberale Piemonte, dove entrando su un muro è ancora visibile l’iscrizione “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”. Motto antesignano del più celebre e sinistro slogan che si poteva leggere nei lager nazisti : Arbeitmachtfrei” (il lavoro rende liberi). Non deve destare meraviglia l’abbinamento perché la guerra del Risorgimento, come ha giustamente osservato Ulderico Nisticò, fu una guerra ideologica. E la guerra ideologica non può che concludersi con lo sterminio del nemico.”
La storia, è noto, la scrivono i vincitori, ma non avremmo l’obbligo della memoria e del ricordo anche per i vinti che fanno parte del nostro passato, a volte di quello più glorioso? Il mediterraneo oggi come ieri faceva gola, come dimostrano le recenti vicende libiche, ad alcune nazioni europee, Inghilterra e Francia in primo luogo, ed il Regno delle Due Sicilie con la sua potentissima flotta, seconda solo a quella inglese, era un ostacolo oggettivo alle loro mire mercantili e coloniali.
Egli morì a Fenestrelle e il suo corpo venne gettato nella calce viva, il 5 luglio del 1864.