Francesco Lomonaco, il cui busto nel 1913 venne collocato sul Pincio a Roma tra i trecento italiani illustri, è considerato un precursore dell’Unità Nazionale, anche se sicuramente non avrebbe mai condiviso le modalità con cui i piemontesi l’anno attuata.
Per avere l’autorizzazione dal comune della capitale d’Italia si dovette attendere la fine del mandato del sindaco di Roma Ernesto Nathan.
Massone dal 1887, di origini anglo-italiane, gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919, la sua amministrazione negò con ostinazione quel riconoscimento a Francesco Lomonaco, forse perché non era stato un fratello massone.
Secondo alcuni studiosi fu anche questa la ragione per cui Lomonaco fu l’unico esiliato eccellente a non aver mai potuto far ritorno nella sua terra origine, non avendo goduto appunto del sostegno della fratellanza massonica.
Era nato il 22 novembre del 1772 e aveva vissuto a Montalbano fino ai 18 anni, quando era andato a Napoli a studiare giurisprudenza prima e medicina dopo.
La madre era Margherita Fiorentino, sorella del medico Giuseppe Fiorentino padre di Niccolò.
Nell’atto di battesimo venne registrato con il nome di Maurizio, Francesco, Saverio, Bernardo, Gaetano e Donato.
Per i familiari e per tutti i montalbanesi fu Ciccio Lomonaco.
Francesco sin da piccolo mostrò una passione fuori dal normale per gli studi.
Ebbe come maestro l’abate Nicola Maria Troyli dal quale apprese il latino, il greco, la filosofia, la matematica, la fisica, l’archeologia, della quale l’anziano uomo di cultura era considerato un profondo conoscitore, e anche l’ebraico.
Francesco stava con la testa sempre sui libri, al punto da impensierire il padre Nicola che gli aveva imposto delle limitazioni con orari ben definiti da dedicare allo studio.
Ma il fanciullo di giorno si andava a nascondere in una grotta fuori dal centro abitato e continuava a leggere e a prendere appunti e di notte usava i moccoli di candela che si procurava con la complicità del sagrestano.
Nicola Lomonaco alla fine si era arreso e gli aveva lasciato tutta la libertà, mettendogli a disposizione anche la sua fornita libreria.
Lo portava spesso con se quando andava nel vicino paese di Tursi, dove era stato nominato governatore.
Lì un giorno Francesco, che aveva solo nove anni, aveva stupito tutti traducendo brani difficili di autori latini e disegnando con minuzia di particolari una cartina geografica.
A Ferrandina, invece, aveva sbalordito con le sue conoscenze della matematica.
A soli 16 anni per ben due anni aveva insegnato nel suo comune, a Montalbano Jonico.
Francesco era basso di statura, con una testa sproporzionatamente grande rispetto al corpo, il viso bislungo tarlato di vaiolo, il naso grosso e il colorito olivastro, vestiva senza alcuna ricercatezza, era anzi trasandato.
Ma due occhi vivissimi e la fierezza del suo viso gli conferivano un inspiegabile fascino che si accresceva quando conversava con il suo eloquio forbito.
Intellettuale dalla solida cultura, amico di Eleonora de Pimentel Fonseca, di Vincenzo Cuoco e di tanti altri intellettuali partenopei, prese parte al movimento rivoluzionario che portò alla nascita della repubblica napoletana del 1799. Scampato per caso al capestro borbonico, il suo cognome venne trascritto Lamanica, esule prima a Marsiglia, poi in Svizzera, quindi a Milano, Lomonaco morì suicida a soli 38 anni a Pavia il primo settembre del 1810.
Amico di Vincenzo Monti e medico di Ugo Foscolo e del fratello di costui, anche lui morto suicida, Alessandro Manzoni lo considerò un suo maestro e gli dedicò un sonetto giovanile.
Soprannominato il Plutarco italiano, padre Gabriele Ronzano, storico, autorevole uomo di cultura, gesuita, nel suo libro Fermo e Lucia, ha avanzato l’ipotesi suggestiva, ma non dimostrata, che sarebbe stato lui a donare allo scrittore milanese il manoscritto da cui egli trasse ispirazione per scrivere il romanzo più famoso della letteratura italiana: “I promessi sposi”.
Una tesi simile e altrettanto suggestiva è stata avanzata da Giuseppe Michele Scaccuto in Eresie su Francesco Lomonaco, dove l’autore si è esercitato anche a trovare delle similitudini tra la forma di scrittura utilizzata dal Lomonaco e quella del Manzoni.
Lomonaco scrisse tra l’altro: Rapporto al cittadino Carnot, Analisi della sensibilità e delle sue leggi e delle sue diverse modificazioni considerate relativamente alla morale ed alla politica, Vite degli eccellenti italiani, Vite dei famosi capitani d’Italia, Discorsi letterari e filosofici.
Francesco Lomonaco entrò in dialettico confronto con i grandi della cultura nazionale, assolvendo al notevole compito di portare a conoscenza degli intellettuali del Nord lo storicismo di Giambattista Vico e tutti i fertili stimoli della cultura napoletana. Sarebbe perciò diventato importante nella vita e nell’opera di Foscolo e Manzoni. Senza di lui, e senza il suo vichismo, difficilmente Foscolo sarebbe passato dall’Ortis ai Sepolcri e difficilmente il giovane Manzoni avrebbe superato l’antistoricismo illuministico, si sarebbe aperto allo studio della storia e avrebbe scoperto una Provvidenza sottesa agli eventi umani. Il Manzoni di tutto ciò, in una intervista rilasciata nel 1866 ma pubblicata sul “Corriere della sera” dieci anni dopo, il 12-13 ottobre 1876, gli avrebbe dato ampio riconoscimento e ampio merito.
Francesco Lomonaco era nato a Montalbano Jonico il 22 novembre 1772, in un momento in cui quella cittadina appariva popolata da dottori laureatisi a Napoli, nel clima nascente dell’Illuminismo. Uno di questi era Nicola Lomonaco, padre di Francesco. Un fratello di Francesco era Luigi, che sarebbe stato anche lui coinvolto nei fatti del 1799. E’ da credere, perciò, che il primo maestro di Francesco sia stato il padre.
A Napoli accostatosi alla cultura francese, lesse Rousseau e tradusse De Mably.
Nel 1799, quando aveva ventisette anni, fu tra i promotori della rivoluzione e fra gli assediati di Castel Sant’Elmo.
Esule dunque a Milano grazie ad una raccomandazione di Vincenzo Monti riuscì ad ottenere l’insegnamento di storia e geografia presso il Collegio militare di Pavia.
Si è detto che agli ideali rivoluzionari fu avviato dal padre, dalle amicizie contratte a Napoli e dagli scritti degli Illuministi francesi; ma una visione più larga della vita e della storia gli venne da Giambattista Vico, che gli insegnò a sperare nel tempo e nel progresso che il tempo porta sempre con sé. Non era la Provvidenza cattolica a sostenerlo in questa fede, ma lo spirito delle cose e degli uomini, quasi un “fuoco” o forza endogena che spinge ad andare sempre oltre il presente. Ciò comporta, più che nella stessa filosofia di Vico, un grande impegno etico e civile.
Lomonaco scriveva Vite degli eccellenti italiani (1802) e Vite dei famosi capitani d’Italia (1804). In precedenza, sulle sue vicende personali e sulla caduta della Repubblica napoletana del 1799, aveva scritto un violento libello, intitolato Rapporto al cittadino Carnot. La conoscenza e i contatti con la cultura settentrionale d’Italia avevano nel frattempo allargato anche i suoi orizzonti politici. Dedicava Vite degli eccellenti italiani all’Italia e non, come si usava fare, a questo o quel personaggio di riguardo. Era il rifiuto della letteratura asservita al principe (sull’esempio di Alfieri e come il Foscolo) ed era anche l’invito a dare un senso unitario e nazionale alle battaglie politiche. Come il Foscolo e il Manzoni, “vergini di servo encomio e di codardo oltraggio”, anche Lomonaco ebbe atteggiamenti tormentati nei riguardi di Napoleone Buonaparte, che, liberale e democratico nei discorsi, era, di fatto, tirannico e dominatore degli altri popoli. Quando pubblicava l’ultima sua opera, Discorsi politici e letterari, nel 1809, Lomonaco viveva questa contraddizione e questo dramma. La sua opera, perciò, mal gradita al potere napoleonico, fu perseguitata dalla censura e ritirata dal mercato. Lomonaco allora, come Iacopo Ortis, cui era molto vicino, perché era vicino al giovane Foscolo, deluso e amareggiato decideva di chiudere con un ulteriore atto di protesta e libertà la sua breve e concitata esistenza. La mattina del 1° settembre 1810 si lasciava affogare nelle acque del Navigliaccio, alla periferia di Pavia. Questa la lettera che Francesco Lomonaco inviò al fratello prima di suicidarsi:
Caro ed amato fratello,
dopo l’epoca della stampa del mio ultimo libro Discorsi filosofici e letterari, io sono stato il bersaglio della maldicenza, della delazione la più infame e della calunnia. I miei fieri e implacabili nemici, non contenti di tutto ciò, muovono ora tutte le macchine per perdermi, sicché profittando degli esami pubblici che i signori allievi di questa Reale Scuola debbono fare, s’ingegnano che essi riescano a mio svantaggio, per seppellire nella vergogna il mio nome. Le prove che ho sono tanto lampanti che non mettono alcun dubbio. Ma perché ciò non accada, ho destinato di troncarmi la vita. Se vissi sempre indipendente e glorioso, voglio morire indipendente e gloriosissimo: so che questo passo fatale vi amareggia immensamente, ma col fato non lige dar di cozzo. Spero che gli autori della fine dei miei giorni avranno l’umanità di farvi pervenire un po’ denaro ed un oriulo d’oro frutto dei miei lunghi ed assidui studi.
Saluto voi, i cari nipoti, la sorella, la cognata, i parenti tutti.
Arrivederci all’altra vita.
Ciccio